3 feb 2010

Recensione su Lightdark - by Stefano Fasti


Cari amici, eccovi una nuova recensione di Stefano Fasti sul secondo lavoro in studio dei nosound, pubblicata su Ondarock e su Wonderous Stories:

Tornano i Nosound, a tre anni di distanza dal debutto di "Sol29". La prima notizia immediatamente rilevabile è che oggi possiamo parlare e scrivere utilizzando il plurale: i Nosound di "Lightdark" (accolto nella sofisticata scuderia della Burning Shed) non esistevano quando "Sol29" ha preso vita. Nosound equivaleva al progetto solista di Giancarlo Erra, un chitarrista/tastierista in grado di comporre piccole sinfonie minimali, senza mai seguire il trasporto verso l’assolo a cui spesso tanto i tastieristi quanto i chitarristi, sin troppo frequentemente, non sanno resistere. Ma attraverso una lunga esperienza live, Erra ha trovato dei sodali (mai semplici gregari) capaci di condividere quell’idea musicale e di realizzarla con un suono finalmente completo, senza tuttavia stravolgere le istanze iniziali.

E così in ogni piega, in ogni interstizio di "Lightdark", in ogni sua gradazione di colore si rivela l’essenza attuale di una formazione che non rinnega le proprie influenze e che cerca, a suo modo, una propria via di espressione senza il desiderio enfatico di stupire con effetti speciali. A governare questo microuniverso è una psichedelia intrisa di minimalismo, capace di spinte ascensionali come di rarefazioni discendenti, che inaugura un unicuum in cui la vena malinconica è forse il vero filo conduttore. Una ipotesi concreta di sincretismo fra i No-Man, i Bark Psychosis, i Pink Floyd, Brian Eno (con Moebius e Roedelius), David Sylvian, i Marillion di Steve Hogarth, i Sigur Rós, resa maggiormente concreta dalla coesione fra i membri del gruppo.

Le propulsioni di puro rock floydiano di "Places Remained" danno lo strappo iniziale e aprono, come un coltello, una ferita nel tessuto emotivo su cui un brano cardinale come "Someone Starts To Fade Away" (con Tim Bowness dei No-Man alla voce) sparge, con fare suadente, manciate di sale. L’eredità del miglior progressive (non la figura retorica costituita dal "calderone progressive", ma la vera intima essenza del progressive, fatta di stupore emotivo, non di clamore tecnico) spiega le proprie ali nella lunga "From Silence To Noise", innalzandosi a livelli non propriamente consueti al prog e, allo stesso tempo, inconcepibili al post-rock (i cui lidi pure vengono lambiti dai Nosound): reminiscenze di cose, ore, giorni, volti, innocenze, sogni forse mai dimenticati, eppure sepolti dal peso degli anni, ma tangibili nei colori e negli odori, riappaiono sotto forma di fantasmi custodi.

Le sylvianiche evaporazioni di "The Misplay" (e del piano e del violoncello che ad esse danno il soffio di vita) sospingono poi i ricordi in un limbo atemporale dove il fiume del passato si disperde nei mille rivoli dei futuri possibili. Prepotentemente poi "Kites", altro brano capitale, rivela in toto una idea, una visione, un modo di concepire la musica che non ha paura di esporsi al vento, alle correnti, ai confronti, senza il timore di questa esposizione permanente dei sentimenti e senza alcun pudore per questa nudità dell’anima. "Lightdark" sa essere anche clemente e anziché lasciare l’ascoltatore in questo stato di commozione sensoriale, sa concedere la pacificazione con una title track che è una invocazione ambient alle alte sfere del cosmo.

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